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Léaud 70

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di Giacomo Giossi

Jean-Pierre Léaud non è il Sessantotto, non è il maggio, Jean-Pierre Léaud non è nemmeno Antoine Doinel. La prima cosa da fare celebrando i suoi 70 anni – in occasione del Festival del film di Locarno (dal 6 al 16 agosto) che gli consegnerà il Pardo alla carriera – è provare a liberare Léaud da tutte le etichette appiccicategli negli anni da critici e spettatori pigri.

Nato di maggio, Léaud ha interpretato appieno il ruolo di attore, o meglio di intellettuale come ci tiene spesso a ribadire, e lo ha fatto tramutando la propria nevrosi, il proprio disagio in gesto politico e artistico, senza mai slegarli, ribadendo il senso di una coscienza civile pulsante che non può privarsi della necessità di una presenza sentimentale, emotiva.

La gestualità teatrale di Léaud è in realtà pura essenzialità cinematografica, figlia del cinema di Murnau e dei grandi espressionisti. Interprete di Truffaut e in parte strumento di Godard, Léaud si rivela appieno e in maniera totale nel magnifico Le départ di Jerzy Skolimovski. Giovane parrucchiere, aspirante pilota di rally, Marc è uno spostato, un irrequieto privo di feticci, totalmente anticapitalista si potrebbe dire, ma non certamente in chiave marxista. Marc non è un puro, è un ladruncolo, un furbo ingenuo, un uomo totalmente politico perché capace di reclamare appieno la propria libertà al di là delle presunte regole sociali che nell’Europa spaventata dal benessere e dalle coscienze si rifanno (a sinistra quanto a destra) più alla buona maniera che ad una morale o ad un’etica.

Jean-Pierre Léaud è lontano dall’ossessione patetica per il successo, è disinteressato all’accettazione sociale e sostanzialmente vive ai margini anche del mondo presuntamente artistico, ma appunto vive. E vive con una forza devastante per sé come per le persone che lo circondano: non esistono mezze misure, non esiste tregua e tanto meno cura, Léaud s’impone davanti alla cinepresa come nella vita, non ha la leggerezza di un’apparizione, ma contiene tutta la durezza di una presenza che non può che essere giudicata ingombrante, con cui si è obbligati a farci i conti.

Simile a lui è forse solo Pierre Clementi, ma con una durezza ancora più scottante e comunque priva della melanconia e dell’ingenuità di Léaud. Quando Clementi cade, Léaud inciampa. Differenze minime, ma è il minimo che fa la differenza tra i due perché dove Clementi denuncia l’inutilità di resistere, Léaud resiste e si oppone pervicacemente, istintivamente, Léaud non ha la possibilità di fare sconti alla propria causa perché la causa stessa è inscindibile da sé.

Scoperto da Truffaut che gli dà spazio e fiducia, che non lo fa crescere, ma piuttosto lo lascia crescere, Léaud non gli può essere banalmente sovrapposto proprio perché entrambi si integrano in un rapporto capace di far scaturire storie e personaggi obliqui tra politica e intimità. La loro è una traiettoria comune, sia biografica che artistica, certo Léaud paga lo scotto dell’attore, più sensibile e fragile rispetto al regista, ma non gli è mai subalterno.

A differenza del rapporto con Godard, che logora e consuma anche le qualità sensibili di Léaud (che è sempre un corpo solo) nell’inseguimento fanatico e ideologico delle visioni del regista svizzero con risultati certamente felici e in alcuni casi capaci di rivoluzionare il linguaggio cinematografico, quello con Truffaut ha l’ambizione di raccontare un’evoluzione emotiva – e non ad una banda di seguaci (spesso acritici), ma al mondo intero, alla sua società, e questo non con un’ottica banalmente borghese per borghesi, ma con la sottile e ingenua furbizia che confida più sulla pratica che sulla strategia.

Quello tra Truffaut e Léaud è il gioco del piccolo delinquentello, del monello di Chaplin, dello zingaro, come dell’ambulante, è l’inciampo che prima o poi subiamo tutti e che ogni tanto facciamo fare, è l’inganno privo di colpa, divertito eppure rivelatore di uno spazio altro dentro cui sostanzialmente amarsi e anche addolorarsi, senza angoscia, senza malessere.

Nel 2009 Léaud interpreta in Visage di Tsai Ming-Liang la propria malinconia, il film non è dei migliori del regista taiwanese, anche se il grado di citazionismo e autocitazionismo è tale che risulta più affascinante che imbarazzante. Léaud -per la seconda volta dopo La nuit americaine- è attore di un film nel film. Osserva e parla lentamente, la sua voce si è tramutata nelle sue mani, il tempo è passato, ma i gesti che lo hanno delineato ora ritornano nel corpo invecchiato dandogli forma. Basta l’elenco di alcuni nomi, la loro pronuncia per aprire uno squarcio in quel tempo in cui non tutto era possibile, ma in cui lui e pochi altri con lui hanno avuto il coraggio di crederlo.

Crederci è un esercizio d’immaginazione, le idee non stanno nell’aria come qualcuno crede per rassicurarsi, le idee e il cambiamento stanno nelle cose, nel modo che abbiamo insieme di toccarle e di vederle.  Léaud mostra il valore della pratica, del gesto che si fa tocco e azione, della pratica intellettuale che non si limita ad essere futile parola per scrivanie ingombre di carte e sgombre di corpi.

Marc ne Le départ si sveglia troppo tardi per la corsa di rally a cui tanto teneva, ormai non può più partecipare, l’occasione è sfuggita, è persa. Marc si ritrova così in una tarda mattinata nel letto di un alberghetto vicino a Bruxelles con Michèle, e sorride felice, fortunato per aver perso  la sua occasione.


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